Giancarlo Ferraris: “Ci crederanno pazzi!”

Giancarlo Ferraris: “Ci crederanno pazzi!”

Classe 1950, nato a Marzano Oliveto (Asti), Giancarlo Ferraris è pittore, illustratore, grafico, incisore e insegnante. Sin dai suoi esordi nel 1972, Ferraris ha esposto le sue opere in mostre personali e collettive, guadagnandosi una reputazione per la sua maestria nell’acquerello, nell’acrilico e soprattutto nell’incisione, un medium che ha approfondito sotto la guida di maestri del calibro di Mario Calandri e presso la stamperia di Piero Nebiolo. 

Oltre alla produzione artistica, ha contribuito significativamente all’ambito grafico e illustrativo, collaborando a partire dal 1975 con numerose riviste e plasmando l’identità visiva di enti locali e consorzi attraverso manifesti di pubblica utilità. Tra i suoi progetti di successo, si annoverano le Carte dei vini per la Regione Piemonte nel 1991, il libro “Edenologia” del 1992 e le etichette premiate al Vinitaly di Verona negli anni successivi. La collaborazione con Michele Chiarlo, iniziata negli anni ’80 grazie ad una mostra, ha segnato un punto di svolta nella sua carriera artistica, aprendo la strada a una proficua sinergia tra arte e vino. 

Il mio primo incontro con Michele risale agli anni ’80, durante una mostra in cui esibivo le mie opere. Ricordo ancora chiaramente quel momento: ero un giovane pittore esordiente, immerso nel mondo dell’arte, mentre Michele Chiarlo, che si stava avvicinando per incontrarmi, era una figura già affermata nel settore vinicolo. Fu evidente fin dal primo istante che c’era qualcosa di speciale in quella connessione, qualcosa che andava oltre la semplice cortesia di una visita alla mostra. 

Michele voleva trasformare radicalmente il modo in cui il vino veniva presentato al mondo, e aveva pensato a me, che a quel tempo collaboravo con una rivista che si chiamava Barolo&co, di Elio Archimede. 

Fu così che nacque la nostra collaborazione artistica. Michele mi propose di realizzare le etichette per i suoi vini, un’opportunità che accettai con entusiasmo, ispirato dalla sua – quasi folle per quei tempi – apertura mentale. Era una sfida stimolante: dovevamo rompere con la tradizione e creare qualcosa di nuovo, qualcosa che rispecchiasse non solo la qualità del vino, ma anche la sua singolare personalità.   

Oggi avere etichette creative, che danno nell’occhio, è all’ordine del giorno; negli anni ’80, però non era affatto così – il mondo agricolo era un elefante che non si muoveva! Le etichette erano tutte uguali, ispirate a quelle degli chateaux francesi: bianco panna, con un corsivo classico, un’immagine, perlopiù ovale, della tenuta.
Michele non ne voleva sapere, anelava a cambiare le cose, e non si preoccupava di chi gli si opponeva. Diceva che voleva che le bottiglie messe in fila negli scaffali fossero come opere in una galleria, che trasmettessero emozioni e stimolassero la curiosità del consumatore. Voleva una bottiglia di vino fosse un piacere per gli occhi, oltre che l’anticipazione di un piacere per il palato. 

Io ero giovane e fuori dal mondo del vino, quindi scevro di schemi, libero e ispirato: in testa avevo il Fauvismo, Matisse, il colore. 

Fu come tirare un enorme masso in uno stagno: sollevammo le onde, sconvolgendo la calma piatta in cui da sempre si muovevano i produttori italiani. Gli dicevo sempre: “Ci crederanno pazzi!” 

Questa rivoluzione, ovviamente, non fu accolta da tutti, o almeno non subito: ma Michele aveva il grande dono del non stare a udire i commenti negativi, non se li sapeva essere chiusi, senza ragion d’essere, dovuti solo all’inerzia. Era un uomo del mondo, e aveva ricevuto ispirazione e conferme da fuori dai confini, mentali e geografici, del territorio in cui si muoveva: sapeva che anche in Italia avrebbero tutti, pian piano, capito, e continuava con fiducia a seguire il suo intuito. 

Ci siamo divertiti moltissimo e abbiamo sperimentato tanto, con le etichette, negli anni – colore e disegni, ma anche lamine, rilievi, punzoni a secco: esploravamo con libertà tutto l’universo dei gesti ammaliatori che potessero attirare lo sguardo di chi prendeva in mano una bottiglia di vino Michele Chiarlo. 

Il nostro processo creativo era intenso e appassionante. Ci incontravamo spesso, discutendo idee e visioni, lasciando che le nostre menti si intrecciassero in uno scoppiettio di ispirazione e rivoluzione. Alla fine, il risultato superava sempre le nostre aspettative: vedere le mie opere trasformarsi in etichette per i vini di Michele era sempre una soddisfazione difficile da esprimere in parole. 

Insieme, abbiamo dato vita a progetti ambiziosi come l’Art Park La Court, un museo a cielo aperto tra i vigneti del Monferrato – un’esperienza straordinaria, una sorta di “Factory warholiana” dove arte e artigianato si fondono tutt’oggi per creare qualcosa di davvero fuori dagli schemi. 

Oggi, guardo indietro con gratitudine agli anni trascorsi al fianco di Michele e dei suoi figli Alberto e Stefano. La nostra collaborazione è stata molto più di una semplice partnership: è stata un’esperienza che ha arricchito la mia vita e ha plasmato la mia carriera artistica in modi che non avrei mai immaginato. E anche se Michele non è più con noi, il suo spirito e la sua visione continuano a ispirare il mio lavoro ogni giorno.