Carlin Petrini: «Il vino non teme gerarchie e punteggi»

Carlin Petrini: «Il vino non teme gerarchie e punteggi»

Mentre l’Atlante delle Vigne di Langa vede una nuova edizione, il fondatore di Slow Food ci racconta la genesi di un libro che ha fatto storia, invitandoci a non aver paura di analizzare, recensire e classificare vigneti e vino.

A marzo 2023 è uscita la nuova edizione dell’Atlante delle Vigne di Langa: Barolo e Barbaresco. La prima edizione, data alle stampe nel 1990, fece scuola. Fu uno dei primi tentativi di dare un “volto” ai grandi vigneti delle Langhe attraverso precise descrizioni morfologiche e pedoclimatiche. Alle nozioni tecnico-geografiche, però, l’Atlante aggiungeva una narrazione antropologica, nata da centinaia di testimonianze raccolte dalla viva voce dei produttori e dei vignaioli che frequentavano quotidianamente i filari di cui si trattava. L’approccio analitico e il calore umano che scaturirono dall’opera sono ancora oggi un faro per chi affronta il tema dei cru, affascinante convergenza tra artificiale e naturale, coltivato e spontaneo.

Per capire come nacque l’Atlante e le sue implicazioni abbiamo intervistato Carlo Petrini – detto Carlin – fondatore di Slow Food e curatore della prima, mitica edizione.

Carlin Petrini, come nasce un libro come l’Atlante delle Vigne di Langa?

Ogni libro ha i suoi illustri predecessori. Possiamo citare Renato Ratti, la cui «Mappa» del 1971 è il primo tentativo di individuare i grandi vigneti del Barolo. Ratti basava la sua inchiesta sul vino, confrontando le annate e le loro caratteristiche: era una zonazione alla francese, imperniata sulla qualità degli assaggi. Il nostro Atlante aggiorna quella visione e la completa. Oltre al vino, aggiunge notizie basate su interviste e testimonianze orali che ho raccolto personalmente in oltre un anno di lavoro sul territorio. È un’analisi antropologica dei vigneti, basata sulla voce e l’esperienza di chi li aveva frequentati per tutta la vita. Si potrebbe dire che l’Atlante permette ai lettori di conoscere i grandi vigneti della Langa nella stratificazione della memoria popolare.

Cosa ci racconta quella memoria?

Ci racconta che, spesso, i veri esperti di Langa erano i mediatori delle uve, ovvero quelli che le compravano per le cantine. Fino agli anni ’90, le principali aziende vitivinicole producevano blend di Barolo ottenuti da uvaggi di vigneti diversi. Erano i mediatori di queste aziende a conoscere le vigne migliori, le posizioni più solatie, i filari che producevano l’essenza di un territorio. Sono figure mitiche, che oggi non esistono più e hanno contribuito a costruire la consapevolezza delle Menzioni contemporanee. Poi sono arrivati i produttori che hanno acquistato quegli appezzamenti benedetti e li hanno valorizzati con il nome del vigneto in etichetta.

Mentre scrivevate l’Atlante, avevate consapevolezza di creare una gerarchia?

Noi non volevamo fare il catasto delle vigne di Langa, non ci serviva un semplice elenco. Volevamo selezionare i grandi vigneti, raccontarli, cercare di delimitarli, dare loro un’identità basata sulla loro vicenda umana e produttiva. Sì, la nostra scelta ha creato una gerarchia di vigneti, semplicemente perché la storia lo ha fatto, ha selezionato tramite la memoria e l’esperienza i filari migliori. Non sapete quante pressioni abbiamo dai produttori per ampliare alcuni territori, includere in Cannubi, ad esempio, ciò che non era Cannubi. Chi ci chiedeva queste cose però non capiva una cosa fondamentale.

Che cosa?

Che i giudizi fanno bene al vino. Analizzare, recensire, gerarchizzare: tutto questo, nel lungo periodo, serve alla collettività, aumenta la consapevolezza dei consumatori, spinge i produttori a imitare i migliori, dà sostanza all’essenza delle grandi vigne. Penso alle molte critiche suscitate dalla Guida ai Vini d’Italia pubblicata da Gambero Rosso e Slow Food, le cui prime edizioni uscirono a partire dalla fine degli anni ’80. Se vuoi che un giudizio serva subito a te, per un fine puramente commerciale, allora non hai capito che è un servizio per tutto il territorio.

Che cos’è per lei il vino?

Il vino, come il cibo, è «piacere». E il «piacere» ha una sua fortissima dimensione politica: ha diritti e doveri. Nella sua accezione più nobile non è antagonista alla salute, non è antagonista all’economia, non è antagonista all’etica. Come diceva Folco Portinari, amico, intellettuale e redattore del Manifesto dello Slow Food: «Io non sono credente, ma se dovessi credere per forza, lo farei per un solo motivo. Perché Dio ha instillato il piacere – quello vero – nelle uniche due attività che servono a tenere in vita l’umanità: mangiare e fare l’amore».